Politica, Anarchismo e qualche esempio

Questo scritto è una traccia prodotta per un dibattito semi-aperto svoltosi il 13 Gennaio al Circolo Berneri di Bologna, sul tema del rapporto fra anarchismo e “politica”.
Il tema della discussione era proprio quello di mettere a confronto due modalità di intendere l’anarchismo: una politica, qui sommariamente illustrata, e una apolitica, che veniva definita “sociale”.
Aggettivo poco consono, secondo noi: l’anarchismo “sociale” è infatti un’anarchismo fortemente politico, che si confronta invece con quegli “anarchismi” impolitici o apolitici che trovano la propria apotesi nei modelli di Lifestyle alternativo e subculturale.

Partiamo da un assioma: il Potere, inteso come capacità di far fare all’altro, non è un oggetto; non si può distruggere o creare.
Esso è un dato materiale, quanto quelli biologici o culturali, ma ancora sopra di essi, è ciò che per eccellenza li può modificare.

Questa teoria è sostenuta da numerosi autori moderni, quali Focault e Clastres e si concretizza in ambito antiautoritario in Bookchin, su cui torneremo dopo.

Se i rapporti di potere esistono indipendentemente, come una specie di risorsa che esiste a prescindere, questo cosa significa?

Significa che sono qualcosa con cui bisogna fare i conti, se non ci si vuole alienare completamente, e in questo senso la Politica diventa la gestione del potere.

Clastres concentra la propria produzione antropologica su un dato: le società antistatali non sono evoluzionisticamente arretrate E QUINDI senza una forma di “archia”, ma al contrario, coscienti che la libertà è una risorsa fondamentale per il proprio benessere, hanno costruito, affinato ed implementato una serie di istituzioni (Ordinamento, nel campo sociale, religioso, morale, politico, fondato su una legge o accettato per tradizione, e le stesse norme, consuetudini, leggi fondamentali su cui si regge un’organizzazione politica – Treccani) che specificatamente e razionalmente impediscono la concentrazione di potere e, anzi, lo redistribuiscono fra tutti gli individui, garantendo così la libertà.
Un esempio? Lo troviamo nel mondo anarchico: la centralità dell’assemblea con le sue caratteristiche di orizzontalità, formalità e consenso.
Infatti, nella loro genialità, gli anarchici dell’epoca d’oro capirono che quelli non erano feticci o disegni per riconoscersi fra noi simili, ma mezzi concreti per impedire il sorgere di forme di dominio.

Perché se il potere è un dato grezzo che esiste sempre nelle relazioni fra individui, l’unico modo per impedirne l’abuso è controllarlo, spezzarlo e redistribuirlo così che tutti ne abbiano e nessuno ne sia l’unico possessore a discapito di altri.

In questo senso entra la Politica intesa come gestione del potere.

Credo che la situazione tragica del movimento anarchico (non mi importa di autonomi e figli, personalmente li vedo come bolscevichi mascherati nel tentativo di strappare una fetta di dominio) sia frutto proprio di una mentalità di resa, di passività e di scarsa lucidità.

Il motivo per cui trovo straordinario il movimento anarchico greco non tanto l’innovatività delle sue semplici posizioni -totalmente ignare delle cervellotiche elaborazioni che ci ingolfano-, quanto il fatto che hanno dimostrato che funzionano.
Hanno dimostrato che “l’idea universale” di bakuniniana memoria non solo è tutt’altro che passata, ma che può cambiare uno scenario sociale.
E’ nel nome dell’anarchia, che in ventimila hanno sfilato con bandiere rossonere, “A” cerchiate e una notevole preparazione militare al confronto con lo Stato, allo sgombero di Villa Amalia.
E’ in quel nome che hanno portato all’ “anti-statalità” e all’anticapitalismo un’intera popolazione e hanno eradicato Alba Dorata.

Come hanno fatto?
Facendo appunto politica.
In che senso?
Nel senso di ragionare lucidamente e razionalmente quali fossero le vie per ampliare e potenziare il movimento anarchico, aumentare di numero e ottenere risposta da strati via via più ampi della popolazione.
Insomma, hanno riflettuto su come combattere Stato e Capitalismo e vincere.
Non ci sono riusciti, ma sicuramente sono andati più lontani di noi, che accettiamo la nostra prostrazione attuale come una condizione ineludibile, o quando parliamo di come rifuggirne, non abbiamo il coraggio di rimettere in discussione il nucleo di dogmi post-tutto ci hanno inculcato.
Fine della digressione.

Tornando in tema, cosa significa che noi ci occupiamo di politica?
Significa ragionare di come riportare il movimento anarchico in auge, renderlo di nuovo forte e combattivo ed in grado di confrontarsi con gli oppressori di oggi.
Significa ripartire completamente da zero riflettendo sul radicarsi nei territori, lavorando per ottenere consenso alle pratiche anarchiche e da lì costruire forme di contropotere popolare che permettano basi da cui ribaltare la situazione.
Significa impegnarsi per ricostruire una coscienza di classe attraverso il lavoro simbiotico fra gruppi politici e gruppi di massa.
Significa essere disposti ad ascoltare i motivi per cui nessuno ci da più peso, all’infuori dei nostri giri, e smetterla di dover dipendere dalla buona volontà di quelle parti del movimento che sappiamo benissimo essere utili alla reazione.

Muarry Bookchin, seppur viziato dall’amarezza verso un movimento anarchico ridottosi ad essere un lifestyle, un hobby, espone con notevole pragmatismo tutto ciò in “Democrazia Diretta”, dove sostiene che gli antiautoritari devono prendersi la responsabilità di progettare e costruire il mondo nuovo che hanno nei loro cuori, edificandola concretamente nei quartieri, nelle città, nelle federazioni di città.

Ad Atene, un vecchio compagno, ci pose questa domanda: “cosa fate se abitate in un quartiere in cui chiudono l’ambulatorio e ventimila persone restano senza assistenza sanitaria?”.

In molti tenterebbero di cavalcare l’onda della protesta per guadagnarci qualche carne da cannone spendibile per dei giochetti di egemonia, altrettanti parteciperebbero in sordina tanto per fare, per tornarsene a casa disillusi come sempre.
Per come la vedo io, noi dovremmo ragionare sul come garantire quell’assistenza sanitaria, sul come garantire luce elettrica, luoghi gestionali e decisionali consigliari, democratici e funzionanti, come garantire capacità di autodifesa ad individui e collettività, e il tutto ciò come farlo in maniera anarchica.

Insomma, fare ciò che il confederalismo democratico sta facendo, con tutte le variabili del caso, in Rojava.
Ma per ciò non basta una semplice e ingenua propaganda o lavoricchio culturale, serve progettualità, concretezza e una forte dose di coraggio per prendersi la responsabilità di spingere in certe direzioni.
Non basta nemmeno il rifugiarsi dietro un lavoro collegiale del “tutti dentro”: anticapitalisti e antifascisti che siano, gli autoritari sono e saranno sempre autoritari, lo vediamo ora con l’Autonomia Diffusa, che tanto blatera di libertarietà e poi è diventata l’ennesima area con i suoi giochetti di egemonia.

E se vogliamo essere capaci di impuntarci ed impedire che gli autoritari si mangino per poi vomitarlo tutto ciò che c’è ancora di buono, dobbiamo assumerci la responsabilità del nostro essere fortemente politici.

Se noi (in senso stretto, stavolta) non reagiremo, l’anarchismo è perduto, se l’anarchismo è perduto, allora la guerra di classe è persa.

Personalmente penso che ci stiamo dirigendo in un’ottima direzione, ma resta il problema dell’ampliare le nostre risorse e forze, cosa che possiamo fare ottimamente facendola tutti e tutte assieme.

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Seminario: Anarchismo o politica? venerdì 13 gennaio ore 20:00

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