Lettera a Giada

La morte di una ragazza causata da un titolo di studio. L’accumularsi del peso della famiglia, del sistema scolastico capitalista e delle ferite interiori, profonde.
Riportiamo qui lo scritto di una compagna che ci parla del confronto fra la depressione come lotta personale e politica e il ruolo dell’ideologia come chiave per rendere più comprensibile il mondo.



A sedici anni, mi immaginavo depressa.
A venticinque, depressa, programmo piani quinquennali di suicidio – faccio esperimenti con le lamette, mi guardo attorno, studio l’ambiente, penso alle probabilità. Mi piace l’ironia del piano quinquennale, mi piace il contrasto tra la lucidità di un piano economico, di un’idea di sopravvivenza, e una cosa francamente irrazionale. Riesco ad immaginarmi nel tagliarmi le vene, e la mia espressione non ha un fremito, non uno: è un progetto, non ha né la vividità dei sogni, né la paura dei timori. Forse per me morire significa sopravvivere – o forse questa è una bella frase fatta. Difficile avere verve drammatica nel 2018 ed essere credibili, mh?
Da quando sono depressa, ovvero per quanto mi riguarda da un’intera vita, sono diventata schiva, difensiva. La consapevolezza di dover difendere questo mio male dai luoghi comuni, dalla brutalità plastica e cinica del capitalismo, dalla stanchezza e dall’incolpevole dolore del prossimo mi è stato subito chiaro. Questo è l’unica via per la sopravvivenza. L’altra.
Nella mia scuola c’era una biblioteca ben fornita. C’era Virginia Woolf. C’era La Signora Dalloway. Una signora di buona famiglia che riesce ad identificarsi nel suicidio di un malcapitato.
Io non lo so se l’ho capito la Signora Dalloway, né a conti fatti è così importante. Non lo so. So che mi ha trapassato come tanti altri, le cui immagini popolano la mia mente come il giallino spento della casa dove sono cresciuta, come le sue ombre e la sua pacatezza malinconica.
Ogni tanto, mi chiedo se non sia una presa in giro. Se non mi abbiano dato certe cose in mano per crearmi una ferita che mi attraversi, un varco tra un Mondo cane e l’altro – una breccia nella mia difesa, qualcosa di delicato, qualcosa da poter distruggere.
Ogni tanto immagino la mia depressione come un bambino. La maggior parte delle volte è un bambino deforme, e io sono uno spartano pronto a buttarlo dall’alto della rupe Tarpea. Ogni tanto mi chiedo se non sarà così che morirò, alla fine del piano quinquennale, assieme al mio bambino, assieme a me stessa. Per sopravvivere. La sopravvivenza, l’altra.
Se mi si chiede da dove viene questo malessere – io che ho gambe per camminare e Netflix per renderlo tendenzialmente inutile ( grazie C. per il bellissimo regalo ) – boccheggio. Ho di per sé uno sguardo vacuo, quindi immagino di sembrare ancora più sperduta. Giocherello con le mani, temporeggio. E poi arriva un professore, un uomo qualsiasi, bel sorriso e bella cravatta, e mi spiega perché devo sopravvivere. E non capisce cos’è la sopravvivenza per me – e non capisce che non lo so neanche io.
Ho un ideale, dell’affetto, qualche canzone. figures of beauty direbbe qualcuno.
E lo so che è una pessima lettera per esprimere cordoglio per la morte di qualcuno, e forse appena un po’ meglio per esprimere rabbia. Mi dispiace. Probabilmente eravamo diverse, probabilmente quell’ideale lì – eccola, finalmente, la sopravvivenza! – tu non lo conoscevi. Forse non sapevi dei vicoli al di là della strada dove ci spingono a forza. Forse non sapevi della possibilità di condivisione reale, ma questo mi auguro proprio di no. Spero ci fosse qualche bella canzone, nella tua vita.
Spero tu lo veda quel vicolo, la prossima volta. È un po’ sporchino, discretamente malandato, pieno di litigiosi e non troppo comodo, ma è ancora il migliore dei vicoli possibili.

Condoglianze alla famiglia di Giada Di Filippo

Una compagna

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