Dopo l’articolo incentrato sul tema della “Sicurezza” e del “Decoro”, un altra analisi più specificatamente incentrata sul tema della polizia e del suo ruolo sociale, delle tattiche di contro-insorgenza e delle basi su cui poggia.
I movimenti politici che si battono per un cambiamento sociale radicale devono inevitabilmente fare i conti con la repressione da parte dello stato [1]. Tra le diverse istituzioni dell’apparato repressivo, la polizia gioca un ruolo centrale. Essendo chiamata a gestire un ordine sociale lacerato da profonde disuguaglianze interne, essa entra necessariamente in conflitto con le persone e i gruppi sociali che minacciano, di fatto o in potenza, di alterare le attuali gerarchie sociali. Per questo motivo è armata e autorizzata all’uso della forza. “Quando la persuasione, l’indottrinamento, la pressione morale e gli incentivi materiali falliscono, c’è la polizia. Nel campo del controllo sociale, i poliziotti sono specialisti della violenza” [2].
Il movimento anarchico ha sempre sostenuto, in modo più o meno elaborato, come la polizia non debba essere riformata o resa migliore (“più umana”), ma vada invece totalmente abolita e rimpiazzata con qualcosa di completamente diverso. Tuttavia, la tendenza è stata quella di considerare l’esistenza della polizia come un problema in un certo senso secondario, vista come semplice prodotto e strumento di sistemi più ampi come lo stato e il capitalismo. Questa visione riduttiva ha impedito che si sviluppasse una efficace strategia per l’abolizione della polizia (e più in generale di lotta all’intero sistema repressivo), impostando la risposta alla repressione in termini per lo più difensivi. Ma una strategia di opposizione alla repressione deve comprendere anche una componente offensiva, perché “un attacco all’apparato della repressione, se ha successo, indebolisce lo stato e rafforza il movimento” [3].
Credo perciò che ogni movimento sociale che si propone la costruzione di una società senza gerarchie deve necessariamente incorporare al suo interno una strategia abolizionista sulla polizia. In questo articolo cercherò di fornire il contesto storico nel quale si sono sviluppate le teorie della repressione con cui dobbiamo fare i conti oggi, per andare poi a vedere quale ruolo ha tutt’ora la polizia nell’implementazione di queste strategie repressive. Infine nell’ultima parte vengono fornite alcuni suggerimenti per una strategia abolizionista così come sono stati espressi da un compagno anarchico americano, Kristian Williams, i cui scritti continuano a rappresentare un passaggio obbligato per comprendere e combattere la polizia.
La strategia della repressione permanente, o “contro-insurrezione”
Con la loro grande carica rivoluzionaria e di trasformazione di ogni aspetto della società, i cicli di lotta degli anni ’60 e ’70 produssero una fortissima crisi di legittimità nei confronti dello stato. Esso fu costretto a rileggere gli eventi per capire cosa andò bene e cosa andò storto e ad elaborare nuove e più efficaci strategie repressive. La risposta venne dall’estero e, significativamente, da ambienti militari. Il comandante dell’esercito britannico Frank Kitson elaborò un modo radicalmente nuovo di pensare le rivolte e i movimenti sociali. Fino ad allora i governi avevano sempre avuto una visione conservatrice della società: “l’ordine politico era considerato stabile, il malcontento sociale era visto come anomalo e irrazionale, il dissenso non era il risultato di determinate condizioni sociali” [4] ma opera di qualche cospirazione anarchica o agitatore comunista. Ribaltando completamente questo paradigma, l’analisi di Kitson “suggeriva che la società esiste in uno stato di conflitto permanente”, e che ogni movimento insurrezionale che si oppone all’autorità dello stato si compone di tre fasi: preparazione, nonviolenza [5], insurrezione. Il vecchio modello era essenzialmente reattivo: rispondeva solamente a partire dal secondo stadio, trovandosi di conseguenza incapace di comprendere i movimenti sociali nel momento iniziale in cui nascono e non potendo fare nulla per prevenirli. Abbandonando questa posizione conservativa, le analisi di Kitson aprivano così la strada a un modo completamente nuovo di pensare la repressione.
Se all’interno della società il conflitto è inevitabile, la repressione deve essere permanente. Filosoficamente, ciò significa che ad essere oggetto della repressione non sono più solamente gli attivisti o determinati gruppi sociali (fra i quali si anniderebbero i “sovversivi di professione”), ma l’intera popolazione deve essere controllata. Strategicamente, questo comporta che venga posta un’enfasi sulla prevenzione: l’idea è quella di impedire che un movimento arrivi ad acquistare ascendenza nei confronti della popolazione, bloccandolo alla fase di preparazione. Tatticamente, ciò si concretizza con una maggiore attenzione verso le attività di intelligence (raccolta di informazioni e sorveglianza) e in tutta una serie di sforzi volti a guadagnarsi la fiducia delle persone.
Secondo l’anarchico statunitense Kristian Williams, ciò che differenzia questa teoria dalle altre teorie della repressione è “la consapevolezza che lo stato ha bisogno di legittimità per consolidare la propria autorità, e che in condizioni di fermento sociale questa legittimità tende a sfuggirli di mano. In altre parole, […] la resistenza non è semplicemente il rifiuto da parte della popolazione (o di parti di essa) a collaborare con lo stato; la resistenza è una conseguenza del fallimento da parte dello stato di soddisfare i bisogni della popolazione” [6]. Il fine è naturalmente quello di sempre: preservare l’autorità dello stato. Ma all’interno di questo processo, “è in fin dei conti la legittimità che separa i vincitori dai vinti”; questo punto cruciale viene esposto nel manuale di strategia militare dell’esercito americano con la massima: “La legittimità è l’obiettivo primario”.
In sintesi, ciò significa che bisogna accantonare l’idea che vede la repressione in termini di reazione, di risposta a una crisi che lo stato si trova a fronteggiare. Al contrario, la repressione agisce proattivamente come mezzo per preservare la normalità. Dato che “questo processo non fa affidamento unicamente sull’uso della forza, ma coinvolge anche l’ideologia, gli incentivi materiali, e, in breve, tutti gli strumenti e le tecniche dell’”arte del governo””, “dobbiamo comprendere la repressione come qualcosa che include sia la coercizione che le concessioni, che impiega la violenza e che costruisce supporto, che sradica l’opposizione mentre semina legittimità. Questa è la base dell’approccio contro-insurrezionale” [7].
La “nuova polizia” in Italia
Presto applicate nel mondo anglosassone, queste teorie non tardarono a trovare risvolti concreti anche in ambito europeo. Non dobbiamo tuttavia immaginarci questo processo (analisi strategica e successiva applicazione pratica), specialmente nel caso italiano, come qualcosa di immediato e consapevole. È probabile che molti dei progressisti protagonisti delle moderne riforme di polizia non avessero mai sentito parlare di Frank Kitson; piuttosto, questo processo avvenne per imitazione e tentativi, successi e fallimenti, e infine adozione di quelle riforme che mostravano di dare i risultati migliori; questo perché simili erano le condizioni dalle quali uscivano i vari governi in seguito all’intensità delle lotte sviluppatesi nel biennio ’68-69 e protrattesi fino agli ultimi anni ’70.
Per ragioni di spazio, non posso qui trattare di tutte le strategie e trasformazioni avutesi dagli anni ’80 ad oggi, mi limiterò quindi ad accennare ai modelli più recenti e che ci riguardano più da vicino.
Per quanto riguarda la gestione delle proteste, la polizia cerca legittimità attraverso il nuovo approccio dell’“inabilitazione strategica”. L’idea di base è di continuare a riservarsi l’uso di qualsiasi mezzo (dal candelotto sparato ad altezza uomo alla negoziazione con gli organizzatori della protesta), ma di farne un uso selettivo, “volto a minimizzare i disordini e a massimizzare il controllo complessivo” sulla protesta [8]. Di conseguenza, la polizia cerca la cooperazione nella gestione della protesta da parte delle componenti nonviolente, legittimandole e attivizzandole nei confronti delle componenti più combattive, le quali vengono così ulteriormente criminalizzate e marginalizzate e rendendo più facile e “giustificata” la repressione (violenta) nei confronti di queste ultime. A differenza del passato, si riconosce ora che la violenza poliziesca, se non è selettiva, è controproducente (come ben compreso da alcuni dirigenti di polizia, essa trasforma i nonviolenti in “combattenti furibondi” [9]) e che la conduzione pacifica di una manifestazione è un obiettivo che polizia e attivisti nonviolenti hanno in comune. Con questa strategia di cooptazione, volta a definire i limiti dell’accettabile durante le proteste, si cerca di spingere gli attivisti “a limitarsi permanentemente a tattiche che sono prevedibili, non dirompenti, e in ultima analisi inefficaci” [10].
Più in generale, in tema di controllo sociale, l’obiettivo è costruire un legame di fiducia tra polizia e popolazione per legittimare l’istituzione nel suo complesso. Attraverso questa opera di legittimazione la polizia è in grado, meglio che in passato, di penetrare nei contesti locali della comunità e del quartiere, ritenuti fonti preziose di risorse e informazioni. Il risultato cercato è quello di una maggiore efficienza dell’istituzione in termini di prevenzione, controllo del territorio, rassicurazione (per lo più simbolica) dei gruppi sociali “rispettabili” e controllo della popolazione “a rischio”.
Parallelamente a questo modello di riforma, che in Italia è stato introdotto con l’espressione di “polizia di prossimità” e che vede nel “poliziotto e carabiniere di quartiere” uno dei suoi punti nevralgici [11], si sviluppa una progressiva tendenza alla militarizzazione di aspetti organizzativi ed operativi tanto della polizia di stato quanto di quella locale. Infatti, come per la gestione delle proteste, anche in questo caso una maggiore legittimità permette alla polizia di essere ancora più “dura”, risoluta e brutale nei confronti dei propri nemici.
Imperativi radicali [12]
“[Per] battere i poliziotti sul piano politico [bisogna] ampliare, aggravare ed estendere le attuali crisi di legittimità che la polizia si trova a fronteggiare. Per compiere tale sforzo occorre accrescere la diffidenza della gente verso la polizia e ridurre il supporto della popolazione verso di essa.
Dobbiamo essere radicali nel nostro approccio su entrambi i lati dell’equazione – andare alla radice sia della sfiducia che del consenso. La diffidenza delle persone verso la polizia, già forte in molti luoghi, può essere aggravata rivelando non solo abusi individuali o anche interi modelli comportamentali di abuso, ma anche il funzionamento di base dell’istituzione e il suo uso della violenza nel preservare le disuguaglianze sociali.
Nel frattempo, si può minare il consenso verso la polizia fornendo mezzi alternativi per risolvere le dispute e i conflitti interpersonali, e per garantire la sicurezza delle persone. Queste sono le funzioni che, per quanto svolte terribilmente dai poliziotti, fanno sentire le persone dipendenti dalla polizia per la loro risoluzione. La nostra strategia dovrebbe essere, simultaneamente, attaccare la funzione centrale della polizia e rimuovere le basi della sua legittimità, spostando così il consenso lontano dalla polizia e verso i nostri movimenti sociali.
Inoltre, dobbiamo imparare a rivolgere contro lo stato la sua stessa forza, così come i suoi punti deboli. Dobbiamo creare le condizioni politiche per cui le vittorie tattiche dei poliziotti diventino per loro obbligazioni politiche, e le loro sconfitte tattiche non rappresentino altro che segni della loro debolezza. In altre parole: dobbiamo assicurarci che la violenza dei poliziotti costi loro in termini di legittimità, e che la violenza contro i poliziotti mostri soltanto quanto sono vulnerabili.”
Traduzione da K. Williams, Police Violence, Resistance and The Crisis of Legitimacy (https://www.solidarity-us.org/node/3123)
Strategia verso un mondo senza poliziotti [13]
“Non ho perciò intenzione di proporre una vera e proprio programma. Tuttavia ho intenzione di proporre qualche criterio che ci aiuterà nel definire le nostre priorità. [Perché siano valide strategicamente, le lotte contro la polizia] dovrebbero fare almeno alcune tra le seguenti cose: screditare la polizia agli occhi delle persone. Isolare i poliziotti a livello politico; dividerli da potenziali fonti di supporto. Sopprimere il morale degli agenti; impedire il reclutamento; promuovere la delazione. Ridurre le risorse disponibili per il sistema giudiziario penale. Frustrare la polizia nel raggiungimento dei suoi obiettivi; dimostrare pubblicamente che le campagne di “legge e ordine” possono essere sconfitte. Proporre la questione dell’abolizione della polizia. Inserire le nostre richieste all’interno di un movimento più ampio per la libertà e l’uguaglianza. Minare il senso di impunità dei poliziotti. Esacerbare piuttosto che mitigare le crisi interne alle organizzazioni dei nostri nemici. Dare alla comunità il senso del proprio potere. Attrarre numeri sempre crescenti di partecipanti, e dimostrare un maggiore impegno e un incremento della nostra attività nel corso del tempo. E in generale, spostare il potere lontano dalla polizia e verso la comunità.
In breve, dobbiamo perseguire le riforme che rendono ulteriori cambiamenti più probabili. E dobbiamo farlo in modi che estendono, piuttosto che restringere, le opportunità per avanzare la lotta. Se abbiamo successo in tutto questo – evitando al contempo i pericoli della cooptazione e sopravvivendo alla repressione cui andremo inevitabilmente incontro – allora possiamo ottenere riforme che ci aiutano veramente a muoverci verso un mondo senza polizia. Possiamo quindi lottare allo stesso tempo per una “responsabilizzazione” della polizia e per la sua abolizione, ma possiamo farlo solo attraverso una strategia abolizionista.”
Traduzione da K. Williams, Strategy toward a world without cops: police accountability vs. abolition (https://slingshot.tao.ca/?p=106006).
Mattia
[Originariamente apparso su Umanità Nova: http://www.umanitanova.org/2017/12/17/unici-stranieri-gli-sbirri-nei-quartieri/]
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1. Uso il termine “repressione” nel modo in cui lo si intende comunemente, cioè come quel “processo attraverso il quale coloro che detengono il potere si mantengono in tale posizione privilegiata cercando coscientemente di distruggere o rendere inoffensive le organizzazioni e le ideologie che rappresentano una minaccia per il loro potere” (cfr. K. Williams, The Other Side of the COIN: Counterinsurgency and Community Policing., in Interface: A Journal for and about Social Movements, maggio 2011, p. 83, www.interfacejournal.net/wordpress/wp-content/uploads/2011/05/Interface-3-1-Williams.pdf)
2. K. Williams, Our Enemies in Blue. Police and Power in America, Oakland, AK Press, 2015, p. 32
3. K. Williams, The Other Side of the COIN: Counterinsurgency and Community Policing, cit., p. 109
4. K. Williams, Our Enemies in Blue. Police and Power in America, cit., p. 284
5. Nella teoria contro-insurrezionale di Kitson la fase della “nonviolenza” indica uno stadio in cui il movimento insurrezionale è organizzato, sta reclutando e pratica azioni dimostrative di un certo rilievo, senza avere ancora acquistato la capacità militare e politica per tentare di rovesciare il governo.
6. K. Williams, The Other Side of the COIN: Counterinsurgency and Community Policing, cit., p. 84
7. Ibidem, p. 82
8. K. Williams, Our Enemies in Blue. Police and Power in America, cit., p. 314
9. D. Della Porta, H. Reiter, La protesta e il controllo. Movimenti e forze dell’ordine nell’era della globalizzazione, supplemento al numero 55, novembre 2004 di “Altreconomia”, Milano, Editrice
10. K. Williams, Our Enemies in Blue. Police and Power in America, cit., p. 309
11. Per un’analisi dei discorsi intorno alla polizia di prossimità, vedi D. Bertaccini, La “nuova riforma” della polizia italiana: i discorsi e le pratiche ufficiali di “polizia di prossimità” in Italia, in L’amministrazione locale della paura, a cura di Massimo Pavarini, Roma, Carrocci editore, 2006.
12. Questo paragrafo, compreso il titoletto, è una traduzione di un passaggio tratto dall’articolo di K. Williams, Police Violence, Resistance and The Crisis of Legitimacy (https://www.solidarity-us.org/node/3123)
13. Qui viene tradotto un passaggio tratto dall’articolo di K. Williams, Strategy toward a world without cops: police accountability vs. abolition (https://slingshot.tao.ca/?p=106006).