“Questo testo [di Sergio Bianchi] è la trascrizione revisionata di un intervento esposto in occasione del convegno «Autoproduzione e autogestione nei Centri sociali» svoltosi a Roma presso il Centro sociale Forte Prenestino nell’autunno del 1995. [1]”
Il convegno sopracitato rappresenta un episodio particolarmente importante della storia del cosiddetto “movimento dei Centri Sociali [2]”, poichè fu il momento di confronto sui temi del rapporto fra autogestione, autoproduzione e autoimprenditoria.
Se ciò che qui ci interessa maggiormente è il commento sulle criticità della struttura del “centro sociale”, anche gli altri due topic risultano attuali vista la recrudescenza del dibattito “autoreddito sì/autoreddito no”.
Da parte nostra evidenziamo questo materiale come parte di una critica al cosiddetto “centrosocialismo”, ovvero al conservatorismo ideologico e pratico che ruota attorno ai CSA – e più genericamente agli “spazi” contrapposti ai “gruppi politici”-, una vera e propria ideologia della pace sociale che baratta le possibilità di conflitto sociale e politico con isole di Comfort “alternativo” per persone che hanno uno “stile di vita militante”.
Con ciò non vogliamo dire che gli Spazi sociali siano da buttare in toto, ma che a) vada riportata centralità ai gruppi politici e alle strutture utili a progettualità politiche e che b) si rifletta su modalità innovative che permettano agli Spazi di uscire dalla stagnazione attuale.
Per quel che riguarda il tema dell’Autoreddito, sinteticamente, ci limitiamo a chiederci se la risposta al problema della chiusura da parte dei soggetti rivoluzionari non sia tanto nell’ “aprire gli spazi” a forme alternative di imprenditoria, quando a sostenere socialmente e politicamente fonti di sopravvivenza alternative all’esterno, quali cooperative di diverso genere. Ciò permetterebbe di garantire l’indipendenza delle “strutture” e allo stesso tempo spargere semi di possibili reti sociali alleate per il futuro.
Su autoproduzione e autogestione nei Centri sociali negli anni Ottanta e Novanta
Sergio Bianchi
Nel rapportarmi a questo dibattito prendo per buono l’avvertimento di Sergio Bologna espresso in altra sede ma, credo, del tutto pertinente anche in questa: «È illusorio cercare ruoli in comunità precostituite come i Centri sociali.
I giovani che le hanno fondate hanno fatto tutto da soli, si sono creati sistemi relazionali che li hanno strappati dall’emarginazione sociale e civile.
Non hanno avuto e non hanno bisogno di noi». Per quel «noi» si intende quei soggetti delle generazioni precedenti a quella degli anni Ottanta che ha fondato l’esperienza dei Centri sociali occupati autogestiti.
Chi appartiene alla storia di un movimento che ha subìto una sconfitta clamorosa, ed è stato assente dalla genesi di un movimento successivo, non ha titoli per dire cosa occorre fare, dove occorre andare. Può solo, con prudenza, contribuire a fornire elementi di dibattito, rispondere dietro richiesta più che dichiarare a priori.
Prendere la parola non è quindi facile, soprattutto se quel che si ha da dire non si annota sul registro delle conferme ma su quello delle smentite, su quello della critica.
Riguardo al merito del dibattito, in un primo momento il termine autoproduzione non mi ha fatto venire in mente niente che, da quindici anni a questa parte, non sia già stato detto e ridetto dalle stesse persone che hanno continuato a fare le medesime cose, nella maggior parte dei casi fatte male e in modo approssimativo, sia nelle forme che nei contenuti. Ma poi, riflettendo meglio, ho pensato: perché le tematiche dell’autoproduzione e dell’autogestione – tematiche che hanno avuto rilievo nella storia del
movimento operaio, soprattutto dei suoi settori più radicali – si sono ridotte oggi a un’ideologia rozza, semplicistica, a una pratica naif del «fai da te»?
Forse perché nel decennio della rivoluzione informatica – che ha scompaginato paradigmi e riferimenti concettuali consolidati e tramandati – il «movimento degli spazi sociali autogestiti» non è sorto da un progetto forte di trasformazione ma da una reazione istintiva di resistenza.
Una resistenza ai ritmi e alle regole dell’economizzazione della vita nella sua interezza. Davanti a ciò la parola d’ordine di quel movimento, povera ma efficace, fu cioè quella di resistere all’omologazione imperante, punto e basta. Comprensibile, dato che sul panorama dell’antagonismo politico e culturale imperava un silenzio avvilito, un’assenza di pensiero, un contemplare attonito gli effetti devastanti di un bombardamento subìto, e riuscito.
Comunque, quella resistenza ha prodotto degli effetti emersi gradualmente nel corso degli anni in termini di acquisizione di visibilità, di riconoscimento e riscontro nel valere da riferimento sociale per altri soggetti sensibili al disagio.
Quei riscontri sono bastati a fondare una piccola storia, una piccola tradizione con il suo
corollario di miti e rituali, insomma una specifica cultura. Una cultura però fragile, irriflessa, conchiusa perché essenzialmente fondata sull’autoreferenzialità, sulla conferma di sé data da sé o dall’immediato adiacente. Tanto è bastato a garantire la certezza di possedere un’identità piena di senso, ricca di una cultura alternativa capace di diffondersi socialmente.
Il meccanismo della spettacolarizzazione, di cui si ciba quotidianamente il sistema dell’informazione, ha poi compiuto il resto: un relativo rilievo giornalistico e televisivo ha contribuito a creare la convinzione d’essere soggetti centrali nello scontro politico.
Chi nasce in un fortino assediato trae la forza di resistere dagli elementi riferiti al culto
dell’appartenenza familistica, clanistica. Anche quando i ponti levatoi potrebbero essere calati perché l’assedio non c’è più ha il sopravvento la coazione a ripetere forme di pensiero e di azione riferite agli elementi fondativi, costitutivi della propria identità. Quindi, i Centri sociali nati negli anni Ottanta, dove autoproduzione e autogestione sono ampiamente sperimentate, hanno dato e tuttora danno risposta a tematiche di ordine esistenziale prima che politico, si collocano cioè nello spazio della prepolitica, costruiscono aggregazione e consenso prioritariamente attorno a quella sfera.
L’invenzione di un loro agire politico e culturale sconta lentezze, contraddizioni, errori, ricominciamenti.
Abbiamo già detto come nel momento costitutivo dei Centri sociali, all’inizio degli anni Ottanta, autoproduzione e autogestione abbiano assunto un significato simbolico valevole di per sé, indipendentemente dalla qualità dei contenuti e delle forme che esprimevano. Non c’era la pretesa di possedere un progetto politico. Piuttosto che pensare di trasformare la società si pensava che da essa occorreva difendersi strappandole spazi interstiziali dove sperimentare relazioni non sottoposte ai vincoli della sua morale e delle sue leggi.
L’importante era affermare un rifiuto, una sottrazione, come presupposto e requisito indispensabile alla sperimentazione di un’alterità esistenziale.
Nel corso degli anni però le cose sono cambiate. La pervasività delle tecnologie informatiche applicate agli strumenti informativi e comunicativi hanno rideterminato la sensibilità sociale generale, hanno smantellato le vecchie forme nelle quali si rappresentavano le identità collettive, hanno cancellato o trasfigurato gli spazi in cui si condensavano.
In breve tempo la socializzazione è diventata un bene scarso perché i suoi costi sono stati progressivamente depennati dagli indici di bilancio delle politiche sociali istituzionali.
È in questa contingenza di domanda di socializzazione inevasa che i Centri sociali si sono ritrovati a valere da referenti di un’offerta capace di garantire, almeno parzialmente, il contenimento di tensioni indotte dal disagio, tensioni che avrebbero potuto sfociare in comportamenti «devianti» socialmente diffusi, difficilmente controllabili e contenibili, gravosi soprattutto sul piano economico.
È forse anche per queste ragioni che il comportamento di alcuni settori della politica istituzionale nei confronti dei centri sociali è mutato e al bastone ha cominciato ad alternare l’uso della carota.
Ma questo passaggio di fase è stato perlopiù frainteso da alcuni ceti politici dei centri sociali che hanno letto l’offerta istituzionale di una «trattativa» come determinata unicamente dal grado raggiunto dalla propria forza aggregativa, dall’espressione della propria rappresentanza politica reale e potenziale.
Un’altra distorsione di lettura degli eventi e dei processi prodotta dall’abitudine a ragionare in termini autoreferenziali, senza tener conto della complessità delle determinazioni politiche generali.
Comunque, agli inizi del decennio Novanta, sollecitati dall’irruzione del movimento studentesco della Pantera e dal crollo del vecchio sistema dei partiti, i Centri sociali sono stati messi di fronte all’urgenza di aprirsi a una socializzazione larga e indistinta o perire per assuefazione e inedia.
Qui siamo all’attualità, all’irrisolutezza di questo passaggio, all’accumulo dei suoi ritardi,
all’ineguatezza dell’intelligenza utile a favorirlo.
Infatti, mentre con le parole si afferma la necessità di adeguare autoproduzione e autogestione al «nuovo corso» degli anni Novanta, con la mentalità si è
rimasti alle sue pratiche degli anni Ottanta.
La paura della «contaminazione» con tutto ciò che ha veste istituzionale arriva a impedire la cooperazione con quei soggetti che, collocati in quel campo, offrono l’occasione di un’appropriazione di saperi che valorizzerebbero le autoproduzioni favorendone uno
sviluppo capace di superare le sue attuali espressioni ridotte alla fornitura di servizi sociali di basso contenuto e qualità.
Spesso, all’impegno dell’autoproduzione fa da presupposto motivazionale una concezione volontaristica, miserabilista, populista, moralista, un’attrazione fatale per le tematiche
riferite ai poveri, ai disperati, agli emarginati ecc.?
È stupefacente questo riemergere di concezioni «terzomondiste», retroterra di un agire che rischia una comunione oggettiva di intenti, e una competizione soggettiva impossibile da sostenere, con il volontarismo cattolico.
Al mercato non ci si può «sottrarre» perché nel mercato ci si sta dentro, sempre e comunque.
Allora, se il problema dello «stare dentro» non si pone, perché è un falso problema, il problema vero diventa unicamente come essere contro.
La «sottrazione» al mercato non passa per la riduzione dei costi di produzione di una merce ottenuta dall’abbattimento del costo del lavoro vivo tramite autosfruttamento
in cambio di un autoreddito da fame (così come largamente viene intesa e praticata l’autoproduzione).
Ciò che si deve piuttosto sottrarre al mercato sono i «saperi alti», quelli che dentro al mercato stanno perché sinora solo lì dentro trovano le condizioni materiali per esprimere il massimo della loro potenza produttiva di ricchezza.
Per concludere, alcune annotazioni sulle esperienze dell’autoproduzione. Intanto occorre dire che la gran parte di esse non si collocano dentro i Centri sociali ma, pur essendo spesso maturate al loro interno o in rapporto a essi, se ne collocano fuori bordeggiandoli anche, se non soprattutto solo, per questioni di referenza di mercato.
Domandiamoci perché i soggetti che animano le autoproduzioni più significative non scelgano di collocare le loro iniziative «autoimprenditoriali alternative all’interno
degli spazi sociali autogestiti.
Di seguito alcune, parziali, possibili risposte.
1) La stragrande maggioranza di questi luoghi non offrono le condizioni logistiche per impiantare un’iniziativa imprenditoriale.
2) L’ambito decisionale di quei luoghi è un’assemblea che si ritiene legittimata a discutere e prendere decisioni collettive su tutto ciò che si svolge nel luogo.
Si crea pertanto una situazione di interferenza decisionale esterna e generale a chi materialmente si ritrova a gestire direttamente un’impresa specifica.
Forme, contenuti, metodi e finalità dell’impresa costituita da un piccolo gruppo si ritrovano a essere vagliate da un insieme indistinto di persone che spesso non hanno neppure le competenze elementari per entrare nel merito dei problemi.
3) Qualsiasi produzione implica rapporti di mediazione col mercato «ufficiale», quindi col denaro ecc., elementi vissuti spesso ideologicamente con disagio e contraddizzione.
4) Qualsiasi iniziativa imprenditoriale, pur modesta che sia, necessita la costruzione di relazioni con soggetti e strumenti esterni a quei luoghi. La loro esternità è sempre guardata con sospetto, se non addirittura considerata illegittima.
Si creano pertanto condizioni di inospitalità per tutti quei soggetti detentori di saperi esterni alla quotidianità di quei luoghi che, prima di essere accettati e messi nella
condizione di operare, si ritrovano nella condizione di intraprendere il defatigante processo della loro legittimazione che passa attraverso la lenta costruzione di rapporti personali fiduciari e l’accettazione del complesso cerimoniale che precede l’iniziazione all’appartenenza.
—————————————————————————————————–
[1] http://www.deriveapprodi.org/wp-content/uploads/2014/01/Sergio-Bianchi-Su-autoproduzione-e-autogestione-nei-centri-sociali-degli-anni-ottanta-e-novanta-.pdf
[2] Il “movimento dei centri sociali” è la denominazione che viene data alle mobilitazioni social-politiche che, ponendo le proprie radici nei Circoli del Proletariato Giovanile della fine degli anni ’70, si distribuiscono per tutti gli anni ’80 e ’90, ponendo forte accento sulla ricerca di una socialità e di un lifestyle alternativi, sulle subculture artistiche e musicali e sulle sperimentazioni mediatiche.
Tendenzialmente viene periodizzato in tre “ondate”: quella fra fine anni ’70 e inizio anni ’80, maggiormente legata agli strascichi politici del ’77, quella in pieni anni ’80, fortemente influenzata dalla culture squatter e punk, e infine quella a cavallo fra anni ’80 e ’90, maggiormente politicizzata ma in modo autonomo, anche per la concomitanza con il movimento studentesco della “Pantera”.
Per approfondimenti, l’ottimo libro di Beppe de Sario (2009), Resistenze Innaturali. Attivismo radicale nell’Italia degli anni ’80., Agenzia X, Milano.